Tullio De Mauro, pensieri sulla lingua italiana

Il testo più chiaro in italiano è “Lettera ad una professoressa” e la Costituzione Repubblicana è uno scritto “di grande limpidezza”. Nella burocrazia, però, nei documenti ministeriali, nell’intero apparato legislativo la lingua italiana ha una “tradizione di oscurità”.

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Riportiamo di seguito un’intervista del 15 novembre del 2014 rilasciata al quotidiano Avvenire da Tullio De Mauro, illustre intellettuale e linguista, nonché Ministro della Pubblica Istruzione.

Salutiamo così il grande professore scomparso lo scorso 5 gennaio all’età di 84 anni.

In fondo al post è possibile scaricare il file PDF dell’intervista integrale.

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Per un linguista, quindi, la Costituzione è un testo esemplare. «È uno scritto di grande limpidezza, frutto evidente dell’attenzione dei padri costituenti per la chiarezza e l’accessibilità. Un risultato che si deve a scelte nell’organizzazione dei periodi improntate alla semplicità e all’ampio uso di parole tratte dal vocabolario di base. Pregi straordinari, soprattutto se si considera la nostra tradizione scolastica, giuridica e culturale».

Quand’è che un periodo è semplice e chiaro? «Ci sono degli studi, che valgono per tutte le lingue, iniziati alla fine degli Quaranta Rudolf Flesch, quando negli Usa si cominciò a sentire l’esigenza di chiarezza nella comunicazione pubblica. Secondo queste ricerche il periodo diventa faticoso quando supera il tetto delle venticinque parole. Nella Costituzione la media si pone appena sotto le venti parole».

E il vocabolario di base? «Il vocabolario di base, in italiano come in altre lingue, è costituito dai settemila vocaboli più utilizzati (De Mauro con Isabella Chiari sta per pubblicare un nuovo vocabolario di base per Mondadori Education e Sapienza). Si tratta delle duemila parole che coprono mediamente il novanta per cento delle occorrenze, unite alle tremila di “alto uso” che coprono un altro sei per cento e a circa duemila vocaboli di “alta familiarità”, ma curiosamente poco usati (secondo le statistiche) sia nello scritto che nel parlato, come federa, allacciare, bottone, melanzana, cucchiaio… Ebbene, la Costituzione usa 1.357 parole delle quali 1.002 appartengono al vocabolario di base e complessivamente ricorrono nel 92,13% del testo: e questo conferisce al testo un grado altissimo di leggibilità».

Per la legislazione che segue è tutta un’altra storia. «È lontanissima dal modello della Costituzione. È redatta in modo barocco, persino assurdo, a volte oltre il limite dell’accettabilità. Ci sono leggi con articoli fatti di un unico periodo…».

Ha in mente un esempio? «Per i linguisti fa scuola la legge sulle “navi ro-ro”, redatta nei primi anni ’90».

Navi ro-ro? «È un’abbreviazione tecnica che viene dall’inglese roll on-roll off che sta per navi traghetto. La cosa incredibile è che il primo articolo di questa legge è costituito di un periodo lungo 181 parole. E non mancano le disposizioni paradossali: per esempio, quella che impone che i portelli della stiva delle navi ro-ro debbano essere a chiusura ermetica, come se non fosse così anche per le altre navi».

Un caso emblematico «Tutta la legislazione è linguisticamente emblematica. E gli specialisti non sanno nemmeno quante leggi ci siano. Lo chiesi a Luciano Violante e mi disse trentamila. Cassese mi parlò di centocinquantamila. Gli studiosi della Cassazione dicono duecentodiecimila. La media negli altri Paesi è di dieci-dodicimila…».

Confusione nel numero, confusione nella scrittura. «Diciamo che la chiarezza è all’ultimo posto fra le esigenze del legislatore. Nel 2002 mi trovai a presentare il libro di Michele Ainis La legge oscura. C’eravamo io e Giuliano Amato, che mi ha redarguito accusandomi di populismo perché sostenevo la necessità di semplificare il linguaggio delle leggi. Amato spiegò che per come funziona il Parlamento, con le leggi emendate migliaia di volte e frutto di decine di compromessi, è impossibile fare di meglio. Ma è solo una parte di verità. Michele Cortelazzo dell’Università di Padova e Maria Emanuela Piemontese della Sapienza si sono dedicati a studiare gli avvisi al pubblico, le circolari ministeriali, gli atti burocratici e hanno trovato gli stessi problemi linguistici delle leggi. C’è una tradizione di oscurità nell’amministrazione pubblica che è indicativa del distacco delle nostre istituzioni dalla popolazione».

Per la narrativa italiana le cose vanno meglio? «Si è imposto il gusto per il periodo breve, che era un tabù nella nostra tradizione culturale e scolastica. Nei programmi della scuola dell’obbligo degli anni Cinquanta e Sessanta si leggeva: “L’alunno scriverà periodi via via più complessi…”. Era lo stile di Cicerone. Così nell’Ottocento e per buona parte del Novecento un personaggio come Francesco De Sanctis, il critico e storico della letteratura che usava periodi brevi, era considerato un pessimo scrittore. Ho studiato la letteratura contemporanea sui libri finalisti dello Strega e il periodo breve è sempre più frequente. Anche se raramente si toccano i vertici della Costituzione. Riguardo al vocabolario, però, si nota spesso un compiacimento per l’uso di parole rare o dialettali».

Il testo italiano più comprensibile? «Lettera a una professoressa di don Milani è da questo punto di vista eccezionale. Usa praticamente solo parole del vocabolario di base e i periodi sono molto brevi. Lo stesso discorso vale per Teta veleta dell’attrice e regista Laura Betti. La Regola di san Francesco è un altro illustre e insuperabile esempio. Buoni anche i testi di Pavese, del primo Sciascia, di Calvino, di Sandro Veronesi, della Mazzantini, della Ginzburg. E, un po’ più indietro nel tempo, in maniera diversa fra loro, sono stati importanti su questa strada Artusi, Collodi e il De Amicis di Cuore».

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